
15 Mag A proposito di Gertrude Stein: Silvia Lumaca introduce ‘L’ultima guerra da ricordare’
Il nome Gertrude Stein è legato indissolubilmente a un universo di immagini, pur essendo lei sempre stata principalmente una scrittrice.
La prima e la più celebre è quella creata da Picasso nel suo Ritratto di Gertrude Stein che ‘Miss Stein’, come la chiamavano con deferenza i suoi ospiti, teneva fronteggiante davanti al suo immenso divano al centro del salone della sua casa-studio, al 27 di rue de Fleurus, nel quartiere di Montparnasse a Parigi.
Ma le immagini che evoca Miss Stein non si limitano ai suoi tanti e altrettanto celebri ritratti: Picasso, Lipchitz, Man Ray… ma sono tutte quelle che le vorticano intorno: scomposizioni cubiste, mele marroni di Cézanne, esperimenti volumetrici di Braque, ballerine sbilenche e stilizzate in colori fluo di Matisse, paesaggi acidi e saturi di colori di Derain. I quadri che, per prima, aveva acquistato, quando tutti questi artisti erano poco più che giovani e brillanti squattrinati, nei loro atelier parigini, che Miss Stein raggiungeva in sella alla sua Ford, vestita dei suoi abiti “da stracciona” come li definirà con una vena di invidia Ernest Hemingway in Festa Mobile. Hemingway era arrivato tardi per collezionare Picasso, gli dovette rispondere la Stein, ormai costava troppo, che provasse a cercare tra i suoi contemporanei. Non ci è noto se lo fece.
Certamente visitò più e più volte lo studio della sua strana amica che “parlava sempre” come un fiume in piena, soprattutto raccontando aneddoti, e dava consigli, spesso stroncature, che apparivano più come enigmatici e ineffabili haiku che non precise e puntuali critiche al testo, quali invece a tutti gli effetti probabilmente erano.
Perché lo stile ineffabile, apparentemente bizzarro, enigmatico e irrigoroso della Stein, nella scrittura come nella vita, altro non era che la modulazione della sua ricerca spasmodica di aderenza alle profonde qualità della vita stessa e della sua trasposizione su carta; attraverso tutti i mezzi possibili, in primis la radicalità, e quindi una necessaria e infinita sperimentazione.
Nei testi che pubblichiamo, che appartengono alla prosa più tarda della Stein, essendo tra i suoi ultimi scritti (1940 il primo e 1944 il secondo, mentre la Stein morirà a Parigi nel 1946) si mostra una raggiunta quiete riguardo alla “spasmodica ricerca” di aderenza alla dimensione più vera e profonda della scrittura, che per altro non si distacca eccessivamente da tutte le ricerche ed esperimenti precedenti, piuttosto li modula con un più ampio respiro, con ancora più dolcezza.
Nel 1940 la Stein pubblica sulla prestigiosa rivista Atlantic Monthly, dove da anni sognava di essere pubblicata – è peculiare come la superbia militare della Stein nel giudicare il valore dei suoi testi fosse s-bilanciata da un bisogno quasi infantile di riconoscimenti di critica e pubblico – The Winner Loses: A picture of Occupied France, un lungo resoconto in cifra di diario personale sulla sua esperienza di americana residente in Francia allo scoppiare della seconda guerra mondiale e sulla progressiva occupazione manu militari dei nazisti fino alla firma dell’armistizio il 22 giugno 1940 che consegnerà la Francia a “loro”, come sono chiamati “da tutti” (noi) i soldati tedeschi, fino all’arrivo degli americani nel ’44.
La narrazione si snoda con cronologia marziale, day by day, dal settembre del ’39 fino al giugno del ’40 quando i francesi, avendo ormai perso la guerra, possono tornare alle loro faccende quotidiane e non occuparsi più del resto. «Quando tutti si accorgeranno come i francesi sanno bene, che è il vincitore che perde, e allora saranno tutti come i francesi, terribilmente occupati con la loro vita quotidiana, e gli basterà quello».
Per Miss Stein questa non è una metafora, è la verità. La sua prosa è uno snodarsi di semplici verità, banali e strabilianti nella loro nudità, nella loro chiarezza. Il tempo in cui si svolge il racconto è l’eterno presente del procedere dei pensieri, che afferrano la realtà vissuta – le bombe, la paura, la voglia e il bisogno di sentirsi vicini alla gente, agli amici, la difficoltà a muoversi, a ottenere derrate alimentari, benzina, giornali, notizie dall’amata e lontana America – semplicemente, sincreticamente, garbatamente. Un garbo che è misura del suono e del ritmo, tramite le amate ripetizioni che lei chiamava “insistenze” perché la vera e propria ripetizione sarebbe ed è impossibile: niente è veramente ripetibile esattamente così com’è e com’è stato.
«Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa è una rosa» è considerata la sua frase manifesto. Suono, ritmo, atemporalità, a-ellitticità e insistenza. Ma anche per molti lettori: enigmaticità? dubbio, incomprensione, astrusità, non senso.
Una fotografia della Francia occupata e L’arrivo degli americani godono di tutta la maturità della Stein e quindi sono una raffinazione, una essenzializzazione della sua sperimentalità.
È una sperimentalità che incontra e prende per mano il lettore, che ne ascolta il tempo, che è comunque il tempo – come per tutti atemporale – della stessa scrittrice.
La Stein aveva sempre ribadito che non capiva il perché di questa sua etichetta di scrittrice difficile, sperimentale ed ermetica. Diceva che qualsiasi sua frase era perfettamente comprensibile e analizzabile per una qualsiasi ragazzina di sedici anni.
In parte è sempre stato vero, sicuramente per questi due testi non è falso.
Il suo amico personale ed editor Carl Van Vechten le chiese nel ’44 / ’45 di potersi occupare della curatela di un’antologia dei suoi testi più rappresentativi da pubblicarsi in volume unico nel ’46 – un tomo che risulterà constare di quasi mille pagine – e che la Stein avrà la gioia e il privilegio di tenere tra le mani prima della morte.
Gli ultimi due testi, a chiusa del volume, e che lo stesso Van Vechten definisce “tra le pagine migliori di Gertrude Stein” sono quelli qui tradotti, per la prima volta insieme come voluto dai due amici.
Il primo è l’articolo per l’Atlantic Monthly, il secondo sono le “ultime sessantasei estatiche pagine di Wars I Have Seen (Guerre che ho visto) pubblicate da Random House nel 1946” intitolate The Coming of Americans: L’arrivo degli americani.
Alla stoica accettazione della fatalità dell’occupazione nazista che i francesi tentavano ‘vittoriosamente’ di ignorare, fa da contraltare l’esaltazione per l’arrivo dei G. I. Joes, i soldati semplici dell’esercito USA, che come un altro fiume in piena americano libereranno le pianure francesi dai nazisti e che la Stein incontrerà infinite volte nella sua vita: a casa, in letture pubbliche, per strada, manifestando ancora una volta in maniera diretta la sua convinzione che non esiste qualcosa come l’identità e quindi siamo tutti (non) uguali, soldati semplici e intellettuali cosmopoliti, ma che possiamo avere tante debolezze, e una di queste è voler sentire il suono di voci americane dopo anni di isolamento dal mondo.
La Stein non si trovava a Parigi in quegli anni, ma in una casa di campagna nel Sud della Francia, con la sua compagna di una vita, Alice B. Toklas (che lei chiama sempre e rigorosamente per nome e cognome).
È strano leggere le esperienze della Stein, grande collezionista d’opere d’avant-garde, mentore e censore dei più grandi scrittori e artisti del primo Novecento – Hemingway, Scott Fitzgerald, Sherwood Anderson, Ezra Pound… – compagna e pari di James Joyce nella teorizzazione dello stream of consciousness, mentre ha a che fare con galline, cacciatori e camminate in montagna.
Ma non troppo, a ben pensarci, anzi, per niente. Hemingway, con cui finì per rompere una bella amicizia e che non ebbe solo parole di elogio per lei, l’aveva criticata dicendo che era troppo superba: «aveva cominciato ad assomigliare a un imperatore romano (…) ma Picasso l’aveva dipinta e io la ricordavo bene, come una contadina friulana».
Se mai avesse avuto ragione, poi avrebbe dovuto anche ricredersi: la Stein era tornata a essere una contadina friulana in quei suoi ultimi anni durante la Guerra.
E assumono così un valore profetico le parole di Picasso, che alla critica che il suo ritratto non assomigliava a Gertrude Stein aveva risposto: “Non preoccupatevi, lo farà.”