
24 Feb L’ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO MIO PADRE – Nel ventennale della morte di Andre Dubus.
Il 24 febbraio del 1999, esattamente vent’anni fa, moriva Andre Dubus. Vogliamo ricordarlo con questa intervista di Nicola Manuppelli al figlio Andre Dubus III.
1. Quando penso al rapporto che hai avuto con tuo padre, mi viene in mente una foto meravigliosa dove lui ti tiene abbracciato. Si trova spesso in rete, digitando insieme i vostri due nomi. Ricordi chi te l’ha scattata e in quale occasione?
Quella fotografia venne fatta da una fotografa del Boston Globe, probabilmente intorno al 1995, più o meno tre o quattro anni prima della morte di papà. La fotografa si chiamava Michelle MacDonald, e la foto venne scattata a casa di mio padre a Haverhill, in Massachusetts, per essere pubblicata insieme al saggio Carrying, dove mio padre raccontava di come io e mio fratello, Jeb, lo scorrazzassimo in giro tutte le volte che ne aveva bisogno. Ero lì con mia moglie Fontaine, che all’epoca era incinta, e il nostro figlio piccolo, Austin, per sbrigare qualche lavoretto di falegnameria a casa di mio padre, e Michelle, che aveva letto il saggio, mi ha chiesto come facessi, materialmente, a trasportare mio padre. Così ricordo che mi accovacciai davanti alla sua sedia a rotelle, e mio padre mi mise le braccia attorno alle spalle prima che mi rimettessi in piedi con lui sulla schiena. Quella foto oggi è appesa a casa mia e lo sarà per sempre.
2. Fra i primi ricordi, immagino, ci sia tuo padre al lavoro. È una delle cose più affascinanti, credo, per chi scrive osservare un’altra persona fare la stessa cosa. Cosa ricordi del suo metodo di scrittura?
Mio padre scriveva sempre al mattino. Prima di essere investito da un’auto su un’autostrada e rimanere paralizzato per il resto della vita (circa dodici anni), iniziava ogni giornata andando alla messa delle sette del mattino nella chiesa cattolica locale. Poi si ritirava alla scrivania, dove scriveva a mano per circa due o tre ore. E subito dopo, per schiarirsi la testa, andava a correre o sollevava pesi, oppure faceva entrambe le cose. Nel periodo in cui ha insegnato, usciva per andare a tenere le sue lezioni.
Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, i suoi pomeriggi erano riempiti dalle letture e dal tentativo di trascorrere del tempo con le figlie avute dal suo terzo matrimonio, le mie due sorellastre. (Un’altra cosa che ricordo è che, dai quaranta ai cinquant’anni, cioè il decennio della propria vita in cui mio compose, credo, i suoi lavori migliori, spesso quando scriveva ascoltava arie d’opera, e indossava un Kimono giapponese).
3. Ho sempre pensato che molti dei racconti di tuo padre siano il corrispondente in forma scritta di ciò che è Blood on the tracks di Dylan in musica. Jacob Dylan ha detto che per lui è particolarmente doloroso sentire quel disco. È così anche per te? C’è qualche personaggio in cui ti sei ritrovato? Ritrovi l’eco dei tuoi genitori e del loro rapporto nei suoi racconti?
Mi piace il tuo paragone fra quelli che definirei i magistrali racconti di mio padre e Blood On the Tracks di Dylan. Papà adorava Dylan (come lo adoro anch’io) e penso spesso a questo cantautore e interprete quando leggo i lavori di mio padre. Sì, può essere doloroso per un figlio leggere le sue storie, specialmente le prime novelle – Non abitiamo più qui, Adulterio e Cercarsi una ragazza in America – perché ci ritrovo la nostra famiglia: mamma e papà e il fallimento del loro matrimonio; io e i miei fratelli; gli amici artisti di papà, che spesso erano anche forti bevitori. Papà ha raccontato la sua esperienza in modo diretto, a volte assolutamente fedele, e vedo e sento sempre così tanto di lui, e di noi, nel suo lavoro, anche se raramente mi capita di trovarvi un personaggio che mi rappresenti a fondo, o personalmente. (Ma papà mi ha confessato una volta che, nella scena di apertura del racconto Uccisioni – il mio preferito e il primo che abbia mai letto – il personaggio del fratello maggiore che sta a lato della tomba era basato su di me …)
4. Ricordi il momento dell’incidente? In che modo lo ha cambiato finire su una sedia a rotelle caratterialmente e come scrittore, se lo ha cambiato?
L’incidente d’auto di mio padre, francamente, lo trasformò in un uomo migliore. Lo avrebbe detto lui stesso. Confinato su una sedia a rotelle e in gran parte dipendente dagli altri, divenne ancora più umile, migliore nell’ascoltare le persone, più presente. Prima dell’incidente, investiva la parte migliore di se stesso nello scrivere tutti i giorni, nell’insegnamento e nell’esercizio fisico, poi passava il resto del tempo, specialmente con noi, la sua famiglia, nel tentativo di rilassarsi, cosa che non gli riusciva molto bene. Ma su quella sedia a rotelle, era come se facesse tesoro di ogni singolo momento, ed era più piacevole averlo attorno, come egli stesso ammetteva. Almeno in un paio di occasioni mi disse che se gli fosse stata data l’opportunità di evitare l’incidente in autostrada, non lo avrebbe fatto. Quando gli domandai perché, mi disse: perché ho imparato tanto.
5. In Un’ultima inutile serata, c’è un racconto dedicato a James Crumley, che è un altro degli scrittori, oltre a Richard Yates e Kurt Vonnegut, per esempio, con cui tuo padre ebbe un intenso rapporto di amicizia. Uno di quei forti bevitori a cui mi hai accennato prima. Molti scrittori che hanno conosciuto entrambi, mi hanno raccontato che tuo padre e James Crumley, questi due scrittori all’apparenza così distanti, erano invece molto simili, sia caratterialmente che fisicamente, tanto da sembrare gemelli …
James era un po’ più robusto di mio padre, almeno di costituzione, ma quando mio padre è invecchiato (e ha iniziato a sollevare pesi), anche il suo aspetto fisico è mutato, era più massiccio, anche se non è mai stato una montagna come Jim. Ma la cosa che ti dava quell’impressione, era la sua presenza imponente, carismatica e profondamente convincente.
6. Qui in Italia siamo ormai al suo settimo libro pubblicato e le sue opere hanno un fedele gruppo di lettori. C’è quasi una sorta di feeling fra il pubblico italiano e il lavoro di tuo padre. È mai stato qui?
È meraviglioso sapere dei lettori italiani e del fatto che apprezzino così tanto i suoi racconti. Lo renderebbe molto felice. Ma no, non è mai riuscito a visitare l’Italia. Di fatto, viaggiava raramente fuori dagli Stati Uniti, e questo era dovuto soprattutto alla mancanza di soldi più che a tutto il resto.
7. Qual è l’ultimo ricordo che hai di lui?
L’ultimo ricordo che ho di mio padre è bellissimo. Era notte fonda a febbraio, e avevamo appena visto insieme un incontro di boxe alla televisione. La mattina seguente, sarei dovuto andare sulla costa occidentale per iniziare il tour per il mio romanzo del 1999, La casa di sabbia e nebbia. C’è un pezzo nel mio memoir I pugni nella testa in cui ne parlo:
“Mi alzai e dissi a mio padre che era ora che me ne andassi. “Va bene, amico”. Mi indirizzò un sorriso e alzò le braccia per un abbraccio. Mi chinai, con il bicchiere in mano, e lo circondai con un braccio. La schiena dava una sensazione di ampiezza e spessore e annusai l’Old Spice, il cognac asciugatosi sui baffi. Restò aggrappato, mi guardò in faccia e mi disse quello che diceva a tutti e sei i figli, ogni volta, quelle tre parole che suo padre non gli aveva mai detto. Gliele dissi anch’io e lo baciai sulle labbra. Mi prese il bicchiere e lo posò in grembo insieme al suo, poi girò la sedia, afferrò i mancorrenti e si issò per la rampa di compensato che portava in sala da pranzo e in cucina. Accese la luce in alto. Io indossai il giubbotto e aprii la porta. Erano uscite le stelle, l’aria era così fredda che i polmoni si indolenzirono per quei primi respiri. Papà mi seguì fuori con addosso solo la maglietta nera e i pantaloni felpati. Si fermò all’estremità del piano davanti alla discesa della prima rampa. Parlava di questo nuovo romanzo che avevo scritto, il tono era generoso e incoraggiante, com’era con la maggior parte degli scrittori giovani, me compreso.
Mi girai, lo salutai con la mano e scesi la prima rampa, poi la seconda, la terza e la quarta. Dal vialetto riuscivo a vederlo nella sedia a rotelle, sotto la luce del porticato, il fiato sottile e bianco che saliva nell’aria e poi svaniva. Al di là c’era la ripida collina dietro la casa, i pioppi nudi nella neve, i rami superiori sullo sfondo delle stelle.
Papà parlava e benché non riuscissi a distinguere le parole, il tono era positivo e sapevo che stava ancora parlando di me e della mia nuova opera.
“Ti chiamo dal viaggio, papà”.
Disse forte qualche altra cosa che non riuscii a sentire. Avviai l’auto e non le diedi il tempo di scaldarsi. Feci retromarcia verso il mucchio di neve gelato, scesi dalla collina e mi allontanai.”
Come sai, mio padre è morto due giorni dopo. Non gli ho mai più parlato, né l’ho mai più rivisto, e mi manca, infinitamente. Ma io e tutta la mia famiglia siamo felici di sapere che la sua opera meravigliosa vive ancora, in Italia e altrove.