
25 Gen “Un tipo diverso di bellezza” – La letteratura di viaggio secondo Virginia Woolf
Virginia Woolf non ha mai scritto letteratura di viaggio così come la intendiamo oggi, anche se pubblicò sulle riviste alcuni brevi saggi dedicati alle sue esperienze all’estero. Ha però tenuto aggiornati i suoi diari per tutta la vita e scritto e ricevuto impressionanti quantità di lettere ovunque si trovasse, tranne nei periodi in cui era più provata dalla malattia psichica: per questo, nella grande messe di scritti che ci ha lasciato, è presente una discreta quantità di pagine relative ai suoi viaggi, che solo recentemente sono state pubblicate in prima traduzione italiana da Mattioli 1885.
Tra il 2011 e il 2013, infatti, questi scritti sono usciti in tre volumi, oggi riuniti in questa raccolta: Diari di viaggio in Italia, Grecia e Turchia, che contiene i taccuini delle esperienze della scrittrice all’estero negli anni 1906-1909, Qui è rimasto qualcosa di noi. Diari di viaggio in Gran Bretagna, relativo alle villeggiature in patria negli anni 1905-1908 e Ultimi viaggi in Europa, comprendente i resoconti delle vacanze di Virginia Woolf sul continente negli anni Trenta del Novecento.
I testi contenuti in questo volume hanno il pregio di essere in massima parte inediti in Italia, tranne alcuni degli scritti relativi agli anni 1933, 1935 e 1938, che hanno visto la luce all’interno della selezione dei diari di Virginia curata da Leonard Woolf nel 1953 e intitolata, nella versione italiana, Diario di una scrittrice. Tutte le traduzioni riportate nella presente raccolta, tuttavia, sono nuove e a nostra cura, così come le note esplicative a piè di pagina.
I viaggi giovanili e le ultime esplorazioni
I diari presentati in questo volume sono relativi in parte agli anni giovanili che precedono l’esordio di romanziera di Woolf, in parte all’ultima fase della sua vita e della sua produzione letteraria, e come tali rispecchiano le diverse vicissitudini artistiche e personali.
I testi scritti tra il 1905 e il 1909, infatti, costituiscono i primi esercizi letterari dell’autrice, che all’inizio della stesura è ventitreenne e ha da poco iniziato la propria carriera di critico pubblicando, fin dal dicembre 1904, recensioni e saggi su giornali e riviste come The Guardian, Academy and Literature, National Review, The Times Literary Supplement e Speaker. Nel momento in cui si affaccia alla vita letteraria nazionale, i diari smettono di essere un resoconto privato, arricchendosi di descrizioni e riflessioni annotate per essere poi riutilizzate e pubblicate in seguito. Alcuni personaggi e situazioni tratteggiati in queste pagine, infatti, confluiranno direttamente nel racconto “Un dialogo sul monte Pentelico” e si ritroveranno in modo più sfumato nel primo romanzo, La crociera (1915) e nel terzo, La stanza di Jacob (1922), mentre alcune delle annotazioni sui libri che Virginia Woolf lesse durante i viaggi (Lettere a una sconosciuta di Prosper Merimée, Due sulla torre di Thomas Hardy e The Adventures of Harry Richmond di George Meredith) fungeranno da spunto per la stesura di articoli che Woolf avrebbe successivamente proposto ai giornali con cui collaborava come critico e recensore.
I diari di quel periodo, inoltre, mostrano un nuovo approccio alla scrittura, mai emerso negli scritti autobiografici precedenti: Woolf cerca di trasformare le impressioni visive del viaggio in immagini verbali in grado di evocare sensazioni, amplificando punti di vista che vadano al di là dell’oggetto contemplato e lo mostrino in modo insolito, come di sbieco. È un elemento stilistico percettibile, attraverso il quale la scrittrice si allontana dal significato razionale per avvicinarsi sempre di più al mondo delle sensazioni e dell’indefinitezza: “[…] mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze”, scrive infatti nel 1908, all’inizio del primo diario italiano. Questi taccuini ci mostrano una Woolf esordiente che sta affinando la propria capacità di osservare e raccontare, e di tanto in tanto si sofferma a riflettere su ciò che va scoprendo e imparando, oltre che sui propri limiti e difficoltà: “Per quel che mi riguarda – io scrivo. L’istinto zampilla come linfa in un albero. Il difetto di gran parte della mia scrittura descrittiva è che tende a essere troppo definita”. Il risultato di questi sforzi letterari è talvolta poco soddisfacente per la scrittrice, che sceglie pertanto di cancellare alcuni paragrafi di testo; altre volte, invece, le descrizioni di paesaggio sono profondamente poetiche ed evocative, e i ritratti degli altri viaggiatori pungenti e ironici: Woolf sta mettendo alla prova la propria capacità di percepire il mondo e ci regala i primi frutti della sua carriera di narratrice.
I taccuini di viaggio dell’ultimo decennio della sua vita (e precisamente degli anni 1931-1935, 1937 e 1938), invece, sono scritti da un’autrice cinquantenne e ormai affermata, che non ha più necessità di compiere esercizi di stile privati: la sua ricerca letteraria, adesso, viene regolarmente pubblicata, recensita e apprezzata, e la farà presto entrare nel novero dei grandi autori della letteratura mondiale. Le annotazioni redatte durante i viaggi, quindi, tornano a essere «private» e acquistano uno stile più telegrafico, ma non per questo meno suggestivo. Purtroppo sono andati perduti i resoconti dei viaggi del 1936 e del 1939: nella prima occasione, i coniugi Woolf trascorsero circa due settimane esplorando la Gran Bretagna occidentale e in particolare la Cornovaglia, ma la scrittrice, reduce dalla revisione del romanzo Gli anni, stava affrontando un periodo difficile, durante il quale aveva abbandonato la stesura del diario. Quanto al 1939, Virginia partì in automobile dal 5 al 19 giugno con il marito Leonard per un giro della Normandia e della Bretagna e, com’era sua abitudine in viaggio, annotò le sue impressioni su un taccuino a parte. Di norma, infatti, lasciava a casa il diario vero e proprio e portava con sé un blocchetto a fogli mobili di cui al ritorno strappava le pagine per incollarle sul taccuino principale, ma in questo caso il blocchetto fu smarrito. Nel 1940 Virginia e Leonard rinunciarono alla loro vacanza annuale, che in genere compivano tra aprile e giugno, a causa della guerra mondiale che infuriava in Europa; il 28 marzo del 1941, infine, la scrittrice intraprese il suo ultimo viaggio uscendo dalla casa di campagna nel Sussex, Monk’s House, per andare incontro alla morte nelle acque del fiume Ouse.
Il viaggio come volo della mente
Come abbiamo accennato, Woolf non ha mai scritto narrativa di viaggio vera e propria. Fin da giovane, infatti, riteneva che fosse troppo facile, per uno scrittore, cadere nella tentazione costituita da quella che definiva “scrittura descrittiva”. Come annotò sul suo taccuino a Firenze nel 1909, “La scrittura descrittiva è pericolosa e tentatrice. Produrre qualcosa è facile, richiede poca energia mentale. Si coglie un aspetto generale, ad esempio dell’acqua o del colore, e lo si annota. Quest’unica caratteristica definisce il tono del pezzo. In realtà, probabilmente l’argomento è alquanto indefinibile, e non è assoggettabile a un trattamento impressionista più di quanto non lo sia il carattere di una persona. Ciò che registriamo è in effetti lo stato della nostra mente”. Virginia Woolf non aspirava quindi a una scrittura che, come spesso avviene nelle narrazioni di viaggio, si limitasse a fotografare i paesaggi e le scene esotiche in cui il viaggiatore si imbatteva, né tantomeno intendeva fornire un resoconto minuzioso delle bellezze architettoniche scoperte nelle città straniere o delle opere d’arte conservate nei musei, anzi, tentava in ogni modo di sottrarsi a quella che le sembrava una scrittura da guida turistica: “Ma è difficile scrivere di Olimpia. Il Baedecker [sic] conterebbe le statue; una dozzina di archeologi le classificherebbe in una dozzina di modi diversi; ma il lavoro finale deve essere compiuto da tutte le menti vergini che le vedono. I frontoni dei templi sono sistemati in fila lungo i due lati del museo; ma noi non intendiamo scrivere una guida turistica”.
La scrittrice prendeva anche le distanze dalla maniera tradizionale di redigere resoconti di viaggio infarcendoli di considerazioni socioantropologiche per sviscerare gli aspetti più reconditi di un popolo o di un paese: “Per quanto riguarda quelle osservazioni sulle usanze o sulla politica con cui tutti i viaggiatori dovrebbero zavorrare le proprie impressioni, confesso che oggi mi trovo alquanto in difetto. La verità è che i viaggiatori indulgono fin troppo in tali prodotti, e gli sforzi per liberarmi da certi pregiudizi hanno distolto la mia attenzione dai fatti”.
In sostanza, scrivere testi di viaggio secondo i canoni fissati dalla tradizione (e quindi opere descrittive, esaurienti, che raccontino i fatti attenendosi all’ordine cronologico) non rientrava nei suoi interessi, come dimostra quest’ultima annotazione tratta dal diario del viaggio in Sussex del 1907:
Credo di aver quasi stabilito che due cose ricadono al di fuori della mia sfera d’azione – non possono essere coperte da abili colate di parole; e la prima consiste nei dettagli di una spedizione; la seconda, nell’aspetto di un vasto tratto di campagna inglese. Pertanto, sebbene stasera sia forte la tentazione di dire qualcosa di un’intera giornata passata all’aria aperta, di una spedizione a Fairlight e ritorno, non vedo come cimentarmi nell’impresa, né la mia coscienza mi sprona a provarci. Avrei dovuto iniziare dicendo quando siamo partiti, quale strada abbiamo preso, il tipo di veicolo, le avventure lungo la via, e nel frattempo avrei dovuto dipingere il quadro del nostro procedere, correndo avanti con un pennello in mano, colorando in fretta i campi e il cielo. Poi avrei dovuto scrivere qualcosa su Fairlight, la sua storia e i suoi sviluppi futuri; e di nuovo sarei dovuta scendere nel dettaglio e trascinare il carro su per la spossante collina. E poi ci sarebbe il picnic – aspetta un attimo, però: ho lasciato il pony senza stalla – e un paio di frasi della conversazione, mentre in qualche modo presento il panorama, magari rendendolo l’oggetto del discorso. Poi le campane della Chiesa rintoccherebbero – e sarebbe ora di andare: ci soffermeremmo un po’ ricordando, rilassati, altre spedizioni simili; le ombre si allungherebbero, e sulla terra si vedrebbe l’immensa luce che si confà ai viaggi di ritorno – una penna abile suggerirebbe la parabola senza scriverla per esteso. E così via; finché il cavallo non sia nella stalla e noi a prendere il tè. Un annalista coscienzioso non si interromperebbe finché non si fosse tolto le scarpe e ravviato i capelli, e non vi fosse più alcuna traccia di questa infelicità prolungata.
È così che dovrebbe essere, se fossi più giovane o audace. Invece no: le cose che voglio davvero ricordare sono queste, credo […].
La cifra stilistica di Virginia Woolf sarà sempre una continua esplorazione, libera dalla rigida osservanza del canone letterario. L’autrice è capace di liquidare Milano in poche righe sostenendo che “Non c’è molto da dire”, di descrivere Assisi senza menzionare san Francesco e di dedicare invece interi paragrafi a scenette di vita quotidiana a cui assiste in un remoto paesino greco. Ciò che conta per Virginia Woolf non è tanto descrivere il monumento imperdibile segnalato dalla Baedeker, sebbene si soffermi sulla cattedrale di Chartres e altri siti turistici importanti e visiti assiduamente le case e le tombe dei grandi scrittori del passato. Il suo obiettivo è piuttosto trasferire intatte sulla pagina l’atmosfera dei luoghi e le sensazioni ricavate durante gli incontri con gli abitanti del posto e gli altri viaggiatori. Ciò che emerge è dunque il racconto di un luogo, sì, ma rarefatto, sintetizzato, distillato dalla spiccata sensibilità della scrittrice e restituito a noi lettori come una perla rara.
“Io conseguo un tipo diverso di bellezza, raggiungo una simmetria attraverso infinite discordanze, mostrando tutte le tracce del passaggio della mente per il mondo; e alla fine ottengo una sorta di insieme fatto di frammenti vibranti; questo mi pare il processo naturale, il volo della mente”, afferma parlando della propria scrittura quando si trova a Perugia nel 1908. E da questo punto di vista i taccuini di viaggio non sono meno significativi dei suoi testi letterari più noti: anche nelle pagine scritte di getto a bordo dell’automobile durante una sosta o rannicchiata sulla sedia dura di una pensione, infatti, le parole della scrittrice ci mostrano “le tracce del passaggio della mente per il mondo”.
Introduzione al volume Diari di Viaggio in Italia e in Europa, di Francesca Cosi e Alessandra Repossi.